Tornadi e altri disastri naturali

Tornadi e altri disastri naturali
TORNADO, mi chiamava il mio migliore amico quando ero adolescente.

Erano gli anni 90, anzi i primi anni 2000, e lui incideva per me delle musicassette con le canzoni dei Queen, poi ne scriveva i titoli sull’etichetta e aggiungeva: Tornado.
Tornado ero io, perché sono sempre stata un Diavolo della Tasmania e il mio temperamento non è mai cambiato, è rimasto sempre lo stesso, dall’età infantile fino a quella adolescenziale, e pure nell’età adulta, fattore che temo mi renda adorabile e detestabile insieme, è un 49% versus 51% ma le percentuali sono tutte da definire. 

VULCANO, mi dicono in molti, e allora mi comincio a preoccupare, perché il tornado è un disastro naturale e il vulcano sarà pure una roba geologica affascinante, ma qualche danno lo crea, vedi un po’ che ne dice la gente di Pompei, ancora stanno pietrificati là sotto per colpa di un vulcano, e ogni volta penso alla gente che si amava e che morì abbracciata e giace ancora così, immobile per sempre. 

VAJONT, mi hanno detto anche. Dal settore aria e fuoco ci spostiamo dunque al tema dell’acqua, tanto è vero che Vajont viene spesso utilizzato insieme a Tsunami, e a volte impiegato in modo figurativo, ad esempio “Tsunami o Vajont di parole”, e neanche questa è una immagine rassicurante, pure se ammetto che sembra essere adatta.

Allora la sottoscritta TORNADO, VULCANO, VAJONT, TSUNAMI, dovrebbe non avere paura di niente, e se tanto mi dà tanto non si spiega perché quella volta ho pensato subito, all’istante: 
tragedia, terremoto, cataclisma, apocalisse, rovina, catastrofe, finimondo, sciagura. 

Forse perché appena ti ho visto la crosta terrestre ha fatto CRAC, l’asse terrestre si è inclinato di 4 gradi e ha fatto SBEM, e se proprio la vogliamo dire tutta, come direbbe Luca Carboni, il mio cuore ha fatto CIOCK e allora vaffanculo, non so che farmene di questa collezione di onomatopee, visto che non siamo in un fumetto, e allora vado ad allestirci la sceneggiatura dell’ennesimo disastro naturale.

BIG BANG!

La vespa rossa

La vespa rossa

Una vespa rossa parcheggiata in Rua del Cassero, non una vespa rossa qualunque, o meglio, per chiunque sarebbe una vespa rossa qualunque, eccetto che per noi di famiglia.
Per noi è LA vespa, quella con cui mio nonno paterno, sprovvisto di patente di guida, si recava a lavoro o a curare l’orto.
Potrei partire dall’amore che mio nonno esprimeva a distanza verso nonna, che si ritirava sul balcone affinchè il suo amato chiedesse il permesso a suo padre, e abbiate pazienza se adesso fa ridere (se i miei amati avessero chiesto il permesso a papà lui sicuramente avrebbe detto subito di sì, per liberarsi di me e addossare a qualcun altro la giobba), ma mio nonno era del 1912 e mia nonna del 1917, quindi un po’ di serenata-rap-old-style ci può stare.
Potrei raccontare delle lunghe trasferte lavorative, degli interminabili viaggi in nave per raggiungere l’Argentina, del duro lavoro di muratore, degli edifici tirati su a Castel Trosino e delle gravidanze una volta l’anno, 10 gravidanze cara nonna, e dunque 10 figli che imbastivano casini ogni volta che uscivi, chissà che ne direbbero i pedagosti odierni di come si tirano su 10 figli senza andare in terapia e senza metodo Montessori, che poi ho sempre pensato che siano state le gravidanze – insaporite con un pizzico di prepotenza – a farti arrivare fino a 104 anni.
Ma tutto questo non serve, basta la luce naturale, il colpo d’occhio che si apre al mio sguardo ogni volta che imbocco questa rua: il Cristo che mi guarda (e anche se non sono a Rio va bene lo stesso), il portone di legno dove tante volte sono entrata annunciandomi al citofono, le colonne dell’auditorium, San Pietro in Castello.
So che a San Pietro Martire mi sento a casa, come a Foce di Montemonaco, tra leggende di negromanti e sibille, nel silenzio di una valle a tratti cupa e misteriosa, dove regna un’inspiegabile pace che spesso ti richiama a sè, che vuole essere visitata, riscoperta e ritrovata, come il piccolo cimitero in cui riposano i miei nonni materni, circondato da cime e crepacci, ma che infonde una strana tranquillità.
E’ la linfa della genetica che scorre nel mio cuore e che mi parla da lontano e io ascolto questo richiamo, perché la memoria è già storia.

In the middle of nowhere

In the middle of nowhere
In un luogo incantato senza storia e senza memoria, nei pressi di un prato, dinanzi una chiesa, nel silenzio di un monastero umido e segreto, il mondo onirico mescola le carte in tavola, ma le carte in tavola sono già abbastanza confuse.
Sono carte che appartengono a mondi diversi, carte che non parlano la stessa lingua. 
Carte da ramino francesi e carte da gioco italiane, carte che non collimano, carte che stonano, carte messe insieme per sbaglio.
Assi di bastoni contrapposti a re di cuori, cavalieri di spade che trafiggono quadri, denari che danno picche, fanti di coppe piene di fiori.
Carte che non riportano e che Morfeo, l’Universo e persino nonna apparsa in sogno hanno scompigliato ancor di più. 
Passato e presente, sogno e realtà si confondono, e l’unica certezza è che da occhi simili tu abbia sempre da perdere. 

7/Martedì/ripartire. Coi piedi per terra

7/Martedì/ripartire. Coi piedi per terra




Immagino una persona distratta come me - e altrettanto priva di senso dell’orientamento - perdersi a Venezia, chiamare in hotel e dire: “buongiorno, mi scusi se la disturbo ma a dire il vero mi sono persa… però stia tranquillo, le dico subito dove mi trovo così risolviamo presto la situazione. Sono vicino ad un canale, intorno a me palazzi logorati dall’acqua salmastra e occhieggianti di finestre ogivali. E attenzione attenzione, le dirò di più - con questo dettaglio proprio non può sbagliare! - vicino a me c’è una gondola il cui conducente ha una maglietta a righe”.

Venezia è una distopia, un mondo a sè ma - una volta immersi appieno nella sua favola - allontanarsene fa male.  Tornare in terraferma ci riporta alla realtà, a meno che uno non abbia grosse difficoltà a tenere i piedi per terra e sia già pronto a volare con Peter Pan e i bimbi sperduti. 

“Facendo fin da principio la massima economia del terreno, si lasciò alle strade quel tanto di ampiezza appena, che si richiede per separare le file delle case le une dalle altre, e per consentire il passo ad una persona. Nel resto l’acqua servì loro di strade, di piazze, di passeggiate. Il Veneziano pertanto dovette diventare uomo di nuova specie, nella stessa guisa che Venezia sorge città tale, da non potersi paragonare a verun altra. Il canale grande che si svolge a forma di spirale, non ha strada al mondo che lo agguagli; la piazza di S. Marco non ha altro che le si possa porre a confronto. E d’uopo far menzione poi dello spazio acqueo che si stende a forma di mezza luna, al di quà di Venezia propriamente detta. A sinistra si scorge l’isola di S. Giorgio maggiore, alquanto più in là a diritta la Giudecca ed il suo canale; più in là, e sempre a diritta la dogana, e l’ingresso del canal grande, dove sorgono, l’una di fianco all’altra, due chiese grandiose ricche di marmi. Sono questi, accennati con poche parole, i principali oggetti i quali si presentarono al nostro sguardo, allorquando sboccammo fra le due colonne sulla piazza di S. Marco. Tutte queste cose furono disegnate ed incise le tante e le tante volte, che sarà facile a miei amici il rappresentarsele.” 
(Goethe, Viaggio in Italia)

6/Lunedì/Gran Teatro La Fenice.

6/Lunedì/Gran Teatro La Fenice.


Nomen omen – e mai locuzione latina fu più appropriata di questa.
È stato un insondabile presagio o una profezia di Cassandra chiamare “La Fenice” un teatro che – per ben 2 volte – ha subito un incendio e poi è rinato dalle proprie ceneri, proprio come l’uccello mitologico.
“Come era, dove era.”
Stesso motto usato per la ricostruzione del campanile di San Marco.
Il primo incendio fu nel 1836 e il secondo fu quello del 1996, ben più grave, perché non venne risparmiata neanche una sala e perché, a differenza del primo, fu doloso, provocato dall’alzata di ingegno di una ditta appaltatrice dei lavori di manutenzione all’interno del teatro.
Per non pagare la penale accumulata a causa del ritardo, i titolari della ditta (due cugini) pensarono bene di appiccare un piccolo incendio così da imputare i ritardi a cause di forza maggiore, ma – come tutti sappiamo – la situazione gli sfuggì di mano.
Condannati rispettivamente a 7 e 6 anni di carcere, uno di loro ha beneficiato dell’indulto mentre l’altro, latitante, fu catturato in Messico e poi estradato a Busto Arsizio, (circostanza che fa quasi ridere, però è andata proprio così) e infine ha usufruito della semilibertà ; adesso spero che c’abbiano entrambi il DASPO da tutti i teatri italiani, anzi, siccome il DASPO è solo per le manifestazioni sportive, spero tanto che abbiano inventato un DASPO teatrale solo per loro.